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Secondo gli ultimi dati l’Italia è ultima in Europa nella conoscenza dell’inglese

22 Maggio 2022 6 mesi 890,00

Gli ultimi dati statistici raccolti riflettono una generale carenza della conoscenza dell’inglese da parte dell’intera popolazione italiana.

Secondo il report annuale dell’EF EPI (English Proficiency Index), l’ente che rileva il livello di conoscenza dell’inglese, la padronanza della lingua da parte degli italiani è fra le più basse d’Europa. Più nel dettaglio l’Italia risulta 36esima al mondo e 26esima nel continente, staccata di venti punti dal gruppo di testa (Olanda, Svezia, Norvegia, Danimarca). Fra le maggiori economie dell’Eurozona – Germania, Francia, Italia e Spagna – siamo quelli che parlano peggio l’inglese.

Purtroppo non va meglio se prende in considerazione la classifica delle grandi città: l’area metropolitana che parla meglio l’inglese è quella di Milano. Ma, pur essendo il più importante centro finanziario italiano, questa città si attesta alla 35esima posizione, lontanissima non solo dalle città baltiche, ma anche da Berlino, Parigi, Madrid e Lisbona. Qualche posizione sotto compare Roma; le altre città italiane non sono nemmeno pervenute. A livello regionale, se Emilia-Romagna, Lombardia, Friuli e Toscana guidano la classifica, attestandosi sulla media europea, scendendo più al Sud le percentuali calano drasticamente: in fondo alla classifica si trovano Sicilia, Molise, Calabria, Puglia e Basilicata. L’ennesima dimostrazione di come i giovani del Sud abbiano meno possibilità di competere sul mercato del lavoro, soprattutto in un contesto sempre più globalizzato come quello attuale.

Il problema ha varie radici: una delle quali è sicuramente di natura culturale. Infatti sul piano culturale l’inglese viene ancora visto come una materia di serie B, qualcosa che si può apprendere in maniera raffazzonata, quel che basta per cavarsela in un contesto lavorativo o in una vacanza all’estero, dove sfoggiamo la nostra sintassi stentata incuranti dell’ilarità che suscitiamo

Con queste premesse non stupisce che l’inglese sia insegnato poco e male nelle nostre scuole. Secondo i dati dell’EF EPI solo il 30% degli studenti degli istituti secondari pubblici, medie e licei, raggiunge il livello B2, ovvero il livello di apprendimento minimo richiesto dal mercato del lavoro e iniziale requisito d’accesso per molte università straniere – che di solito, nel corso del primo anno, una volta ammessi richiedono agli studenti di raggiungere il C1. Particolarmente arretrata è la situazione dei tecnici e dei professionali in cui – al contrario dei licei, che vedono un 40% di studenti in grado di padroneggiare il B2 – solo il 20% ha competenze soddisfacenti. Non sorprende poi scoprire un’Italia divisa in due anche in questo campo: se nelle aree urbane il 40% degli studenti raggiunge il B2, nelle scuole di provincia la percentuale si riduce al 25%.

Ma il dato più interessante riguarda il divario tra scuola pubblica e istituti privati: se, come abbiamo detto, nella pubblica solo 1 studente su 3 possiede un livello di inglese minimo, nelle private quasi il 50% raggiunge il B1 e il 40% arriva al B2. Le private possono vantare anche le più alte percentuali di studenti che padroneggiano i livelli C1 e C2, un 20% che nelle pubbliche si assottiglia a poco meno del 10%. Le scuole italiane sono sotto la media europea, e solo la scuola privata mantiene il passo delle altre nazioni. In Europa più del 60% degli studenti raggiunge il B1, il 50% arriva al B2 e il 20% dei liceali si attesta sul C1. Nella scuola pubblica italiana l’inglese è derubricato a materia di secondaria importanza, una competenza che sarebbe meglio acquisire ma che non è strettamente necessaria, al contrario di altre materie principi come l’italiano o la matematica.

Questo ritardo si accumula dalle medie ai licei e diventa evidente, e in certi casi incolmabile, unito all’analfabetismo funzionale, all’università. Infatti è chiaro che l’università non si può addossare interamente un processo lungo e stratificato come l’apprendimento approfondito di una lingua straniera. Dovrebbe essere compito del sistema scolastico obbligatorio, tramite una pianificazione che interessi gli alunni sin dall’asilo, momento in cui si forma l’orecchio interno dell’essere umano.

I vecchi metodi di insegnamento tradizionale sembrano non essere efficaci: concentrandosi esclusivamente sulle competenze di grammatica fine a se stesse gli insegnanti sembrano non riuscire a far appassionare gli alunni alla materia, facendo loro capire l’importanza del parlare diverse lingue, che non riverbera solo sul loro futuro professionale ma sulla maniera di concepire e comprendere il mondo. E allora ecco che bisogna correre ai ripari con costosi corsi privati, quando ce li si può permettere, cercando di ottenere certificazioni in tutta fretta e con uno sforzo notevole. Emerge dunque chiaramente che la scuola italiana anche in questo caso ha fallito il suo obiettivo formativo. Bisognerebbe trovare rapidamente una soluzione, magari riformando radicalmente i metodi di insegnamento della lingua a tutti i livelli scolastici.

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